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TUTTO HA UN INIZIO
di LB#15

Tutto ha un inizio. Nessuno saprà mai quando e perché, in un paese come Fusignano completamente privo di strutture all'aperto, qualcuno decise di trasformare un pezzetto di terra in uno spazio piastrellato. Eppure un genio, un profeta, forse un alieno baskettofilo proveniente dal futuro, lo fece.


I miei primi ricordi di ciò che un giorno diventerà per tutti "il Playground" risalgono a più di trent'anni fa. Abitavo a pochi passi, in quello che allora era un quartiere straordinariamente tranquillo, tanto da permettere a un neo-ciclista come me, alla tenera età di cinque anni, di andare a zonzo solo soletto. E io, come per incanto, mi ritrovai a disegnare cerchi con la mia bici da cross sopra una piastra di cemento. Vuota, triste, con due pali a metà del lato meno corto, blu e scrostati, senza rete, senza vita.


"È una pista di pattinaggio!" diceva mia sorella dall'alto dei suoi sette anni. Ma non mi convinceva. Una pista di pattinaggio a piastrelline, ruvida, sconnessa? E i pali? Eppure lei ci pattinava e io sentivo come un lamento uscire da quel pezzetto di mondo, un fremito, un sussulto a ogni ruota che lo attraversava. “Voglio di più”, sembrava mi dicesse.


Poi il trasloco. Niente più bici. Niente più serate sulle piastrelle all'ombra dell'unico albero, custode e inquilino di ciò che diverrà il centro del mondo per tanti. Niente più senso di protezione dato dall'argine del fiume che incombe come le mura di un castello sulla regalità del Playground. Per molto tempo non mi feci più domande sulla natura di una piastra sorta in quell'angolo di Fusignano, insaccato tra il fiume Senio e il fantasma di un polo industriale, forse mai utilizzato. Nessuna curiosità sul perché, in un paese pieno di spazi vuoti com'era il nostro trent'anni fa, sia stato costruito, in un quartiere di periferia, certo, ma completamente a ridosso delle tre case presenti. Per anni più nulla, il Playground cadde nel silenzio dei ricordi, nel limbo delle sensazioni percepite e non elaborate.

 

Poi ci fu il mio frontale con il basket. Il volantino dei Rangers Basket Fusignano, la decisione di iscrivermi senza consultare nessuno, anche se non avevo fatto altro che tre infruttuose lezioni di nuoto nella mia vita di asmatico, incerto, ciccio-spastico e a-sportivo. Gli eventi poi si inseguirono come in un film visto a doppia velocità, ricordi di un'era di VHS estinti: la squadra, i compagni, gli allenatori, l'accendersi del fuoco per il basket, la voglia di giocare sempre.


Il primo pallone, rigorosamente bianco-rosso-blu, era il simbolo di un'America così lontana allora da apparire incredibile, inarrivabile. Le leggende che giungevano dall'altra parte di un oceano che non è mai più stato così immenso, erano esaltanti. Le gesta eroiche di moderni cavalieri, Bianco/Verdi contro Giallo/Viola con un velo di Rosso/Nero incombente che trasudava potere e prometteva dominio, erano circondate da un'aria di mistero, aumentata dall'irreperibilità delle informazioni. Le cifre delle partite erano oggetto di culto. Le si potevano consultare solo in giornali costosissimi e a tiratura limitata, stampati su carta così ruvida da sembrare pergamena. E per noi lo era, da consultare in religiosa osservanza.


Numeri minuscoli e ritagliati, vista la precarietà che ne traspariva, da una fotocopia di un giornale americano. Numeri che riportavano cifre di partite giocate settimane prima, per vedere le quali avremmo senza esitazione donato un mignolo o un orecchio, parti del corpo superflue per un uno contro uno. Volevamo essere come loro, seguire il mito delle loro gesta. Gli allenamenti invernali non ci bastavano più. Volevamo guardare la palla in piena luce, contro i raggi di un sole infuocato come la nostra passione. Volevamo sudare.

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Fu così che convinsi i miei genitori, non so come, a farmi costruire un palo regolabile in altezza, in metallo, a cui era attaccato un tabellone clamorosamente troppo leggero, e un canestro semplice e sobrio, ma di cui ricordo ancora il rosso acceso e deciso, il rosso del sangue e dell'amore. Contemporaneamente, a casa di Bubba, successe la medesima cosa. Per qualche tempo rimanemmo ognuno con il proprio canestro, si andava a casa di Devis a dare due tiri, si veniva a casa mia a fare lo stesso. Non eravamo molti, ma ogni volta diventavamo di più. Sempre di più.


Così Devis decise di portare il suo canestro in uno spiazzo piastrellato a pochi passi da casa sua. Era uno spiazzo abbandonato da tutti tranne che dal suo albero custode, ma così presente nei miei ricordi da farmi credere di essere sempre rimasto là, ad aspettare che qualcuno desse vita a quell'angolo di mondo, così pieno di magia. Di lì al portare anche il mio canestro al campo, lo spazio fu breve.

 

Il trasporto fu indimenticabile. In pochi ragazzi, senza chiedere l'aiuto di nessuno come da allora facemmo sempre in ogni occasione, ci caricammo il peso, clamorosamente fuori dalla nostra portata, direttamente sulle spalle. Il ricordo della fatica patita nel percorrere i quasi due chilometri, da casa mia al campetto, è strettamente legata all'immagine di noi schiacciati da palo e tabellone, peso reale e simbolico del nostro sport. Il fardello, che portammo a cuor leggero spinti dalla brama di una partita tutto campo all'aperto, si è involontariamente trasformato in un rito di iniziazione. Dal momento che accettammo di compiere quello sforzo, non lasciammo mai più il peso a nessun altro, la scelta era stata fatta.


In poco tempo il Playground prese vita. Ogni sera e ogni pomeriggio andammo a disegnare le simmetrie di quello che diventò il nostro "posto". Ogni singolo evento portò a renderlo grande e vivo, almeno per noi. Neppure la precarietà dei nostri canestri impediva lo svolgersi di partite a un livello incredibile, molto più alto della somma dei nostri talenti. Avevamo però sempre guardato, oltre che con preoccupazione, con grande incertezza i due pali blu ancora presenti quasi in mezzo al campo. Forse il Playground ci tradiva? Si faceva usare per la pallavolo, per il tennis o per cos'altro? Un giorno quel posto scelse noi. Per incanto ci chiamarono dal Comune: “Abbiamo dei canestri fissi da montare, vi interessano?".


Due giorni dopo furono gettati e montati davanti ai miei occhi i due tabelloni più strani che avessi mai visto. La loro forma a scudo contribuì a rendere l'ambiente ancora più unico. Soprattutto furono tagliati i pesanti pali blu, il cordone ombelicale con gli altri sport era stato reciso. Il Playground era definitivamente il nostro Playground..


Negli anni gli abbiamo rifatto parte delle piastrelle, verniciato i pali e disegnato le righe in stile NBA (con vent'anni d'anticipo rispetto a quello che decisero ai piani alti), gli abbiamo fatto disegnare graffiti nel cerchio di centrocampo, fatto montare luci e panchine. Nel tempo è cresciuto ed è anche invecchiato, come noi. Ma ogni rimbalzo di Spalding che si sente provenire da quelle piastrelle – tump! - contiene la forza di tutte le volte che degli amici si sono ritrovati proprio lì – tump! - con un pallone in mano – tump! - una canotta sulle spalle – tump! - delle scarpe ai piedi – tump!... E un sorriso sul volto... swooosh!

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